Già seimila anni fa, i Sumeri simboleggiavano con una foglia di vite l’esistenza umana e, sui bassorilievi assiri con scene di banchetto, sono rappresentati schiavi che attingono il vino da grandi crateri e lo servono ai commensali in coppe ricolme.
Anche gli Ebrei dell’Antico Testamento, che attribuivano a Noè la piantagione della prima vigna, consideravano la vite “ uno dei beni più preziosi dell’uomo” (I Re) ed esaltavano il vino che “rallegra il cuore del mortale” (Salmi).
Nel mondo greco il vino era ritenuto un dono degli dei e tutti i miti sono concordi nell’attribuire a Dioniso, il più giovane figlio immortale di Zeus, l’introduzione della coltura della vite tra gli uomini, tanto che Dioniso, il dio del vino, fu oggetto di culto non solo presso i Greci, ma anche in Etruria, dove era identificato con la divinità agreste Fufluns, e quindi nel mondo romano, dove era conosciuto come Bacco e ricollegato a Liber, antica divinità latina della fertilità.
Secondo la versione più diffusa del mito, Dioniso era nato dall’unione di Zeus con Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe. Zeus per avvicinare la donna, che era mortale, le aveva nascosto il suo vero aspetto, ma Semele, istigata dalla gelosa Era, gli chiese di poterlo ammirare nella sua forma di dio del cielo, ed essendogli Zeus comparso con la folgore, restò incenerita. Zeus allora salvò dal suo corpo il piccolo Dioniso e lo cucì nella propria coscia per portarne a compimento la gestazione; quando il bimbo nacque, lo affidò alle ninfe del monte Nisa affinché lo allevassero. Cresciuto nella solitudine dei boschi, educato da Sileno, Dioniso piantò la vite, inebriandosi dell’ “umòr che da essa cola” e il suo destino fu di peregrinare di luogo in luogo accompagnato da animali feroci, pantere o tigri, e seguito da un numeroso corteggio di menadi, satiri e sileni.
I temi connessi al vino sono i protagonisti assoluti della pittura vascolare greca, ed in particolare ebbero grande diffusione le raffigurazioni di Dioniso e del thiatos dionisiaco, oltre, naturalmente, alle scene di simposio.
La pratica della viticoltura vanta origini antichissime, come è testimoniato da non pochi documenti figurati; fra i tanti è degna di nota la pittura di una tomba tebana della XVII dinastia (15552-1306 a.C.), dove sono rappresentati due contadini che colgono grappoli d’uva da una pergola, circostanza interessante da cui si deduce che in Egitto, gia nel II millennio, era diffuso il sistema di coltivazione ‘a pergola’. Altri quattro lavoranti procedono alla pigiatura delle uve in un grande tino ed un loro compagno, chino sotto le cannelle, raccoglie nei recipienti il mosto appena spremuto. In alto si nota una ordinata fila di anfore nelle quali, una volta completata la fermentazione, veniva risposto il vino.
Moltissimi erano i vini prodotti nel bacino del Mediterraneo, ed in particolare in Italia: bianchi, rossi, secchi, abboccati, leggeri e pesanti a bassa e ad alta gradazione alcolica.
La qualità del vino dipendeva dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche delle piante e dai metodi di coltivazione: sappiamo ad esempio che le vigne basse davano vini mediocri e che, invece, i grandi vini italici erano generalmente ricavati da viti in arbusto. Era inoltre radicato anche l’allevamento della vite con ceppo basso, senza sostegno o con sostegno a paletto; così era la vigna raffigurata sullo scudo di Achille: “…una vigna stracarica di grappoli, bella, d’oro: era impalata da cima a fondo di pali d’argento… un solo sentiero vi conduceva per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna;…in canestri intrecciati portavano il dolce frutto”(Hom. Il.XVIII, 561-569).
Per quanto riguarda la vinificazione è testimoniato l’uso di una tecnica molto simile a quella utilizzata fino quasi ai nostri giorni: essa prevedeva, in breve, la raccolta e la pigiatura dei grappoli in larghi bacini, la torchiatura dei raspi e la fermentazione del mosto in recipienti lasciati aperti fino al completo esaurimento del processo.
L’uva veniva di solito tutta raccolta per la vinificazione, ma poteva anche accadere che una parte del prodotto fosse messo in vendita ancora sulla pianta. A differenza degli lavori agricoli, la vendemmia era un’attività festosa, che non apparteneva propriamente alla sfera del lavoro quotidiano, ma trasformava la condizione umana e la poneva in contatto con il divino. E’ per questo che, almeno nel mondo greco, la maggior parte delle raffigurazioni relative alla produzione del vino, ed in particolare alla vendemmia, hanno come protagonisti Dioniso ed il suo seguito di satiri e menadi, che sono spesso rappresentati mentre riempiono i canestri di grappoli d’uva o nelle altre fasi del trattamento dell’uva.
Maggiori notizie si hanno per il mondo romano: l’uva veniva raccolta in una vasca (lacus vinaria) dove si procedeva alla pigiatura, quindi, una volta colmata questa vasca, si aspettava che il mosto si separasse dalle vinacce e, mentre quest’ultime, quando affioravano, venivano torchiate, il mosto passava in una vasca sottostante. In questo secondo lacus, dove poi confluiva anche il mosto delle vinacce torchiate, aveva luogo la fermentazione cosiddetta tumultuosa. Dopo sette o otto giorni si travasava il mosto in grossi doli interrati dove si completava il processo di fermentazione.
Il vino più ordinario veniva consumato o venduto appena limpido, attingendolo direttamente dai doli (vinum doliare), quello di qualità o destinato alla vendita era invece travasato in anfore (vinum amphorarium), dove subiva una serie di trattamenti mirati a garantirne la corretta conservazione. Comunissimo era l’uso di esporre le anfore al calore e al fumo in appositi locali (apotheca e fumarium) oppure quello di aggiungere al vino acqua di mare o comunque salata, secondo un uso gia diffuso in Grecia dove si pensava che l’acqua di mare rendesse il vino più dolce e servisse ad evitare “il mal di testa del giorno dopo”. A seconda delle diverse stagioni il vino poteva essere raffreddato con la neve o scaldato; diffusissimo era inoltre l’uso di addolcirlo con il miele e profumarlo con foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano.
In molte raffigurazioni sono inoltre rappresentati servi che filtrano il vino in appositi utensili (cola): gli antichi, infatti, per difetto di tecnica, non arrivano mai a produrre vino perfettamente limpido, perciò il verbo liquare (filtrare) è talvolta usato dai poeti come sinonimo di mescere. Le anfore destinate alla vendita venivano tappare con sugheri e sigillate con pece, argilla o gesso e trovavano collocazione entro le celle vinarie. Un’iscrizione a pennello sul corpo dell’anfora o un’etichetta (pittacium) ricordavano l’origine del contenuto, mentre per indicare la data, si scriveva il nome dei consoli in carica quell’anno.
In Etruria, dove la coltura della vite aveva fatto la sua apparizione nella prima metà del VII sec. a.C., già nel corso del VI la distribuzione di anfore vinarie nel Lazio, in Campania e nella Sicilia orientale, in Sardegna e in Corsica e, a nord, sulle coste meridionali della Francia e della Spagna, è indice non solo del volume dei traffici intrapresi, ma anche dell’intensità di una produzione ormai ben avviata. L’Etruria, evidentemente, è stata capace di organizzarsi in breve tempo sul piano commerciale per smerciare al meglio il prodotto vinicolo in eccedenza. Almeno nella fase iniziale, il fondamento di questo commercio sembra sia stato sostanzialmente lo scambio di generi di necessità e/o di prestigio, come il vino, contro metallo o prodotti semilavorati.
Le anfore, recipienti solidi o affusolati, idonei ad essere accatastati razionalmente sulle navi, sono sempre state considerati i contenitori da trasporto per eccellenza.
Nell’antichità in genere è il traffico marittimo ad avere il massimo sviluppo e ciò è da ritenersi naturale ove si considerino la lentezza e le enormi difficoltà del trasporto terrestre. Per quanto riguarda quest’ultimo, avveniva su carri trainati da buoi o muli dove le anfore trovavano posto, impilate, e quindi coperte con teloni assicurati ai bordi dei carri con funi e corregge.
Sia nei conviti greci che quelli romani il vino si beveva mescolato con acqua, molto probabilmente a causa della sua altissima gradazione alcolica dovuta alla vendemmia tardiva. Le proporzioni della mescolanza erano stabilite di volta in volta da uno dei convitati eletto dagli altri commensali alla carica di simposiarca, come lo definivano i Greci, o di magister bibendi o rex convivii, come lo chiamavano i Latini, il quale fissava anche il numero e le modalità dei brindisi. Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino, giudicata pericolosa, erano quelle chiamate “a cinque e tre”. La proporzione a cinque era formata da tre quarti d’acqua e due di vino; quella a tre, invece, da due parti d’acqua per una di vino.
A Roma si usava fare brindisi bevendo alla salute, o di uno degli astanti, il quale doveva vuotare la tazza esclamando: bene tibi, vivas, oppure di persone assenti. Nel brindisi alla donna amata era uso vuotare tanti kyathoi uno dietro l’altro quante erano le lettere che componevano il nome di lei (nomen bibere). Così Marziale: “Sette calici a Giustina, a Levina sei ne bevi, quattro a Lida, cinque a Licia, a Ida tre. Col Falerno che versai numerai ogni amica, vien nessuna; dunque, o Sonno, vieni a me”.
Nel mondo romano esistevano anche le tabernae. Si trattava di locali assimilabili alle nostre osterie, vere e proprie mescite dove si vendeva vino al dettaglio. Erano costituite da uno o più ambienti, di cui quello all’aperto sulla strada fornito di un grande bancone in muratura, sul quale si trovava quasi sempre un piccolo fornello per scaldare l’acqua d’inverno ed erano poggiati contenitori e vasi potori di vario tipo. Nel bancone erano inoltre murati alcuni grandi orci per contenere il vino da vendere.
Il loro numero indica quanti tipi di vino si potessero trovare in quella data taverna.
L’arredamento delle tabernae era essenziale: tavoli e sedie, sgabelli e panche di legno, e banconi in muratura. Qualche volta, nei locali migliori, le pareti erano abbellite da decorazioni a festoni o da drappi e ghirlande, se non addirittura affreschi che illustravano tipiche scene da osteria.
I proprietari, o gestori delle tabernae, godevano di solito di una pessima fama: appartenevano sempre ad una classe sociale di infimo rango, spesso erano schiavi affrancati o comunque di origine servile, molti dei quali provenienti dalla Grecia o dall’Oriente.
Il cibo era a buon mercato e il vino costava ancora meno: quello servito normalmente era mescolato con acqua calda o fredda, a seconda delle stagioni, a volte “condito” con miele e spezie. Talvolta si servivano anche vini pregiati, più cari, ma più buoni dei vini “della casa”.
Plinio parla, solo per Roma, di ben ottanta qualità di vino! Il più apprezzato era il Falerno, ma Orazio canta anche il Caleno e il Cecubo, prodotto presso Fondi, e Marziale l’Albano.
Insieme al vino venivano servite focacce dolci, uova e formaggi, frutta fresca, verdure e ceci. Le locande più pretenziose potevano avere specialità quali cacciagione o pesce, funghi o tartufi.
Tra i numerosi locali che servivano il vino nelle città dell’impero romano erano le popinae, vere e proprie trattorie, dove si bevevo consumando i pasti, al tavolo e le cauponae, che erano un po’ come le nostre osterie di campagna poste sulle strade, spesso provviste di stalle per i cavalli e frequentate con una sorta di stazioni di sosta dai viaggiatori.
Fonte: Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Carlotta Cianferoni – Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana
0 Commenti